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La saga dei Fanes - Opere specifiche

Le leggende della zona di Rocca Pietore


Ho ricevuto per la cortesia di A. Agostinelli (Autore del saggio “La Rocca di Pietore” (1999), che espone le vicende storiche di quel villaggio e del suo territorio, fondandosi su una ricca base documentale), che ringrazio, il volume “Leggende ladine delle Dolomiti” (2007), una raccolta curata da Sandro De Bernardin e da Patrizia Gabrieli, sotto gli auspici dell’Union di Ladins de Ròcia.
Rocca Pietore fa parte di quella fascia di territori, parte della provincia di Belluno, i cui abitanti si sentono Ladini come origine e cultura, ma non vengono riconosciuti come tali dai Ladini “DOC” delle Dolomiti centrali.
Non spetta a me esprimere un giudizio sulla fondatezza della loro istanza di ladinità, né sulle ragioni implicite nel volergliela negare. Ho esaminato questa raccolta di leggende, nel mio ambito di (modestissima) competenza, sia per il loro interesse intrinseco, sia per raffrontarle con quelle delle valli limitrofe, a tutti gli effetti ladine. Per quanto compaiano indubbiamente anche dei motivi non-ladini (ma ve ne sono anche fra le raccolte di leggende schiettamente ladine!), nella maggioranza dei casi vi è un riscontro abbastanza puntuale di temi, situazioni e personaggi, che le inseriscono sicuramente nell’areale delle leggende di origine ladina.


Re Ombro e Ombretta

A monte dei Serrai di Sottoguda, un portale di bronzo segnava l’inizio del regno di Re Ombro. Questi, che aveva una figlia bellissima, Ombretta, si era risposato con una donna che la odiava. Quando Ombretta venne chiesta in moglie da un principe, la matrigna chiamò una strega e la fece trasformare in pietra sulle rupi della Marmolada. Solo un pastore riuscì a sentire il suo flebile canto disperato.


Questa leggenda è la controparte orientale di quella di Conturina, viva sul versante fassano. Identica la storia della protagonista, odiata dalla matrigna provvista di due figlie più brutte di lei (eco della fiaba di Cenerentola, certamente ben nota almeno in val di Fassa, riportata come tale anche da De Rossi, 1984) ed infine trasformata in una statua di pietra, collocata sulla precipite parete sud della Marmolada. Identica la strofa che si cantava in proposito.
Il nome della fanciulla è ovviamente diverso: Conturina da Contrin, la valle che sale da Alba, Ombretta dalla valle omonima, che sale da Malga Ciapela.
La versione di val Pettorina è arricchita dalla presenza di questo “re Ombro”, nome tuttavia palesemente ricavato a ritroso dal nome della figlia (nella versione della val di Fassa il personaggio è passato sotto totale silenzio). La presenza di un fastoso regno in alta montagna è un motivo comune anche ad altre leggende (cfr. p.es. in questa raccolta “La damigella della Frata” o il racconto di Albolina nei “Monti Pallidi”, anche senza voler tirare in ballo il “Regno dei Fanes”).
Molto probabilmente l’origine della leggenda ha carattere eziologico, ossia cerca di “spiegare” attraverso un mito il significato di una formazione rocciosa in parete, vagamente rassomigliante ad una figura di donna. Se poi sia venuta prima la versione fassana o questa della val Pettorina, non è cosa facile a dirsi; anzi, si può dire che la questione sia abbastanza oziosa. Anche la faccenda del portone bronzeo che chiudeva il regno alla stretta di Sottoguda potrebbe avere una sua spiegazione a suo modo eziologica: sarebbe nata per “spiegare” le grandi chiavi di bronzo (di origine ormai ignota) rimaste a lungo appese al portale della chiesa del paese.

 

 

I due fratelli

Due fratelli devono dividersi l’eredità: il più furbo costruisce una nuova stalla per il più tonto, e si tiene la vecchia. Naturalmente tutte le vacche vanno nella stalla vecchia. Il tonto riesce a trattenere le due più malconce. Poi va al mercato e con un trucco fa’ un po’ di soldi. Il più furbo tenta di replicare il trucco, ma ormai la gente lo ha capito e lo mena. La cosa si ripete due volte.

 

L’aneddoto moralistico sui due fratelli, uno tonto ed uno furbo, in cui quello tonto fa fortuna e quello furbo – e imbroglione - rimane sempre scornato, non è privo di addentellati con altri racconti dolomitici, ma presenta alcuni caratteri di originalità. Spesso si tratta infatti di una coppia di coniugi, cfr. in questa raccolta “Marito e moglie”, ed entrambi godono i frutti delle scempiaggini del tontolone. Anche le situazioni della storia sono abbastanza divertenti, e non trovano riscontri puntuali nelle altre leggende delle Dolomiti a me note.

 

 

El tabiè da le zuce

Il comportamento poco devoto di alcuni giovani innesca una tregenda infernale che si placa solo di fronte ai simboli religiosi esibiti da un anziano molto pio. La tregenda sembra preconizzare, con i suoi bagliori ed i suoi rumori, gli avvenimenti della Grande Guerra.

 

A parte questo dettaglio (una tipica “profezia a posteriori”), il motivo delle potenze maligne che si scatenano contro chi sembra prendersene gioco è abbastanza comune e scontato; ad esempio, ricorda diverse altre storie ladine sull’orco o la caccia selvaggia.

 

 

La damigella della Frata

Nei giorni festivi, la damigella della Frata scendeva a messa dal suo castello nelle alte montagne. Un giorno i nemici invasero la zona, presero prigioniera la damigella e diedero fuoco al castello. La donna profetizzò che un giorno nelle sue terre si sarebbe trovato un gran tesoro, e morì.

 

Quello della o delle grandi dame che si recano a messa e che tutti attendono per dare inizio alle funzioni, è un motivo abbastanza ricorrente (p.es. le Dame di Palafavera o quelle di Col del Mas o quelle di Castelaz citate in Perco e Zoldan, 2001). Troviamo poi in De Rossi (1984) la leggenda della contessa di Doleda, ambientata in val di Fassa, che presenta molti spunti in parallelo a quelli della Frata (tanto che potrebbe trattarsi della stessa leggenda, in due varianti locali); per esempio, quello degli anelli di ferro fissati nella roccia, unici resti esistenti delle antiche dimore fortificate. Questi anelli (presumibilmente la motivazione eziologica della leggenda) si ritrovano in molti luoghi delle Alpi; vi è anche chi ha suggerito trattarsi degli ormeggi dell’arca di Noè!
Da notare come, in tutti i casi citati, la roccaforte sia in mano ad una donna: come già segnalato dallo stesso Wolff, questo fatto che potrebbe adombrare il ricordo di primordiali costumi matriarcali nelle comunità isolate d’alta montagna.
Anche il castello di Doleda, come quello della Frata, alla fine viene distrutto, sebbene non dal nemico ma da una rivolta degli stessi fassani; ed entrambe le dame, in ultimo, rivelano la presenza di grandi ricchezze nascoste nel sottosuolo.

 

 

La croce d’argento

Due astuti montanari, scesi a Venezia per comprare una croce d’argento per la chiesa, con un sotterfugio riescono a portare a casa un oggetto molto più costoso di quanto avevano a disposizione.

 

Anche in Alton (1881) si trovano alcuni aneddoti in cui dei Ladini scesi in città (in genere Venezia) riescono astutamente ad ottenere i loro scopi, fingendosi dei contadini ancora più grezzi ed ingenui di quanto la gente già non li creda. Il tema doveva essere abbastanza ricorrente.

 

 

La Donaza e il Donazin

Un boscaiolo, sorpreso dalla strega chiamata “Donaza” e dal figlio (il “Donazin”), se ne libera col trucco di far loro mettere le mani nella fessura di un tronco, quindi getta entrambi nel burrone.

 

La “Donaza” o “Donacia” ricorre due volte in questa raccolta di leggende. In entrambe è accompagnata dalla prole, qui un figlio unico, nell’altra (La Donacia) addirittura da una vasta prole.
Il termine deriva evidentemente dall’italiano “donnaccia” nel senso di “donna di malaffare”, ma il vero significato della parola doveva essere stato completamente dimenticato, altrimenti i figli non verrebbero certamente definiti “donnaccini”.
La figura della “donnaccia” ricorre spesso nel Bellunese (Perco e Zoldan, 2001), ma non è mai accompagnata da dei figli. Il suo ruolo è comunque strettamente affine a quello della Bregostana della val di Fassa.
Il trucco usato dal boscaiolo per liberarsi della Donaza (chiede aiuto per spaccare un tronco e le imprigiona le mani nella fessura, togliendo di scatto la scure) è un classico ladino, in genere riferito ad un salvano, bregostano o bregostana (cfr. p.es. De Rossi, “Le perfide bregostane”); è invece una variante atipica che l’uomo li uccida, precipitando madre e figlio nel burrone.

 

 

Marito e moglie

Una donna ne fa passare di tutti i colori al marito con la sua ingenua dabbenaggine, ma alla fine recupera tutto e i due si godono il risultato.

 

In questa caratteristica novella burlesca, la moglie fa la parte della stordita completa e ne combina all’uomo di tutti i colori, salvo che alla fine tutte le sue grossolane stupidaggini finiscono per tornare a vantaggio della coppia. Tipico umorismo popolaresco, assimilabile certamente alle patofje fassane (Poppi 1987) ma privo di corrispondenze puntuali con altri racconti ladini che io conosca.
Sono stato invece molto sorpreso dal trovare un racconto strutturalmente identico, ed assai simile anche in molti particolari, in una monografia sul paese di Calco, nel Lecchese (A.L. Brambilla, C.Ponzoni, 2004: Calco, un paese che si racconta, Cattaneo Paolo Grafiche, Oggiono). La distanza è notevole, e non mi sono noti altri esempi consimili, né nella zona, né in quelle intermedie. O i due racconti si rifanno ad un’origine comune (ma quale? quando? dove?), o uno è derivato dall’altro, magari col tramite di un artigiano itinerante che sapeva raccontar bene le storie. Non sono tuttavia in grado di ipotizzare, se così fosse, quale racconto sia quello originale e quale quello derivato.

 

 

L’ultimo orso di Mont de S-ciuota

Un cacciatore, rimasto senza munizioni, finisce un terribile orso sparandogli in bocca due ramponi tolti dai propri scarponi.

 

Racconto atipico, in quanto non si tratta propriamente di una leggenda, ma di un vero e proprio aneddoto, anche se forse è colto proprio nel suo trasformarsi lentamente in leggenda.

 

 

La Madonna della Neve

Una vecchia rifiuta di santificare la festa della Madonna della neve per portare il fieno nel fienile. Ma una tremenda nevicata estemporanea seppellisce lei ed il suo fienile sotto quello che diventerà il ghiacciaio della Marmolada.

 

La storia della donna che viene sepolta dalla neve come punizione per aver raccolto il fieno anzichè santificare la festa era viva anche in val di Fassa, ovviamente ambientata su quel versante, precisamente a Gries (riportata sia da G. Alton, sia da H. de Rossi). In tutti i casi, si afferma che sia stata questa nevicata miracolosa a dare origine al ghiacciaio della Marmolada, che in precedenza era una distesa di ubertosi prati da fieno.
La Madonna della neve, secondo la tradizione cristiana, si festeggia il 5 agosto. Si afferma che, nel 352 D.C., un patrizio romano volle dedicare una chiesa alla Madonna e sognò che questa gli indicava il luogo dove erigerla. Il papa fece il medesimo sogno e la mattina dopo, recandosi sul posto, sul colle Esquilino, lo trovò coperto di neve nonostante la stagione. Di qui il nome di “Madonna della neve”. Il culto è abbastanza diffuso in tutto lo Stivale e persino in Sicilia (!).

 

 

L’uomo di Colaz

Un uomo sogna che troverà la sua fortuna sul ponte di Rialto. Vi si reca, e trova una vecchia che sognava che sotto il focolare della casa di lui era nascosto un gran tesoro.

 

Anche questo racconto trova un suo contrappunto in Alton, che lo ambienta però a Predazzo. Anche in questo caso la rivelazione del tesoro avviene a Venezia, sul ponte di Rialto, e concettualmente la storia è del tutto identica.

 

 

La tentazione a Pian da le Ris-ce

Un cacciatore assiste per caso ad un sabba e si accorge di essere osservato da una volpe. Le spara e scopre trattarsi della moglie, che è stata convinta dallo stregone Piere dal Polver a vendersi l’anima per possedere un pupazzo con cui compiere varie magie. L’uomo la perdona, insieme bruciano il pupazzo e la moglie si salva.

 

Con questa leggenda siamo in pieno nelle tradizioni del “Sabba”, ossia del raduno delle streghe e dei demoni in una località precisa in cui si svolgono riti osceni e congiunzioni carnali col demonio. Si noti che le “streghe” non sono esseri soprannaturali o solo parzialmente umani, ma persone del villaggio che stringono un patto (in genere scritto) col demonio e acquistano certi poteri malefici in cambio del diritto-dovere di partecipare al sabba e – ovviamente – della dannazione dell’anima.
Troviamo qui diversi motivi, che in genere ritornano anche in altri racconti ladini:
-Il convegno notturno settimanale delle streghe: secondo una testimonianza seicentesca riferita da De Rossi, poteva svolgersi anche tre volte a settimana (lunedì, mercoledì e giovedì). Aveva luogo in determinate località, celate nei boschi o sulla cima delle montagne (ricordo forse di antichi riti perpetuatisi fino a molto dopo l’affermarsi del cristianesimo?) e consisteva in riti osceni o blasfemi, canti e danze, spesso alla presenza del demonio in persona;
- La trasformazione delle streghe in animali: in genere la capacità di trasformarsi in animale era attribuita alle potenze infernali (demonio, orco, katertempora…) ma poteva anche essere trasferita alle streghe e da queste utilizzata per recarsi al sabba. Più spesso però le streghe si ungevano con un unguento magico “che le rendeva leggere” e vi volavano passando dal camino, oppure montando a cavallo della classica scopa;
- Ogni ferita loro inferta, rimane anche quando riassumono sembianze umane: era un modo per “riconoscere” le streghe; per esempio, quando si nascondevano nel latte per impedirne la cagliatura, se vi si immergeva un ferro rovente la strega rimaneva ustionata (De Rossi) e si poteva così individuarla tra le donne del paese.
- Lo stregone “Piere dal Polver”: personaggio probabilmente storico, su cui Alton riporta un aneddoto molto interessante e dettagliato. Compare anche nella raccolta di Simon de Giulio, ma non in De Rossi, che pure cita numerosi altri stregoni;
- Il pupattolo magico: l’uso di un pupazzo per fare malefici è abbastanza tipico dei racconti di streghe, ma non me ne sono noti altri esempi ladini.

 

 

La Donacia

La vigilia dell’Epifania, la Donacia prepara la sfoglia dei ravioli per la sua numerosa prole (i donacini). Un contadino, rincasando molto tardi con una coppia di buoi appena comperati, distrugge nel buio i piatti preparati nel prato per i donacini. Si rifugia nella stalla, ma la Donacia lo insegue e gli chiede se deve uccidere lui o il bue. L’uomo sceglie il bue; il mattino dopo, trova il bue morto e l’impronta bruciacchiata della mano della Donacia impressa sulla porta.

 

Troviamo qui la figura della Donacia associata non ad uno, ma a molteplici figli, come mai accade in altre leggende (cfr. “La Donaza e il Donazin”). L’animale appena comperato che viene trovato morto senza cause apparenti (incauto acquisto?) doveva essere un episodio non del tutto infrequente, per il quale si tiravano in ballo volentieri le potenze maligne. Ma l’origine della leggenda sta probabilmente in quell’impronta bruciacchiata sulla porta della stalla, simile a quella di una mano e di chissà quale origine, per “spiegare” la quale deve essere stato costruito l’intero impianto.

 

 

Le ondine del Lèch dai Giai [=il lago dei Galli (cedroni)]

Un giovane assiste al bagno delle ondine e viene tramutato in sorgente.

 

Si afferma che la punizione derivi dal non aver gettato nel lago una medaglia benedetta, per abbreviare il purgatorio alle anime che vi scontavano i loro peccati; ma è evidente che si tratti della cristianizzazione spuria di un castigo assai più antico, per aver disturbato il bagno, forse sacro, delle “ondine” (nel testo ladino: eivane, ossia anguane). Vedi p.es. il mito di Diana e Atteone (ritorna anche il motivo della metamorfosi, per quanto di genere del tutto diverso).

 

 

L’ora passa e l’uomo non arriva

Si sente echeggiare nei monti una lugubre voce: “L’ora passa, e l’uomo non arriva”. Un uomo diventa sempre più irrequieto, finchè non segue la voce fino a trovarsi sotto un precipizio, da cui precipita un masso che lo uccide.

 

Motivo non propriamente ladino, riconducibile al motivo (universale?) dell’ineluttabilità del destino.

 

 

Le popace di Lasta

Vissero nel paese di Lasta due gemelle siamesi che avevano l’abitudine di profetizzare il futuro.

 

Le gemelle siamesi di Lasta sono citate anche da G. Alton e presumibilmente si possono ricondurre ad un fatto storico. Alton fornisce anche una datazione precisa (“al di presso avanti 180 anni”), dunque all’inizio del ‘700. Egli ci informa che vissero “diversi anni” e che profetarono il futuro di quelle contrade. Accenna però a predizioni completamente diverse da quelle contenute in questo racconto. Evidentemente l’evoluzione della storia è proceduta di pari passo col verificarsi degli eventi profetizzabili.

 

 

Ei buu! Ci èsto buu?

Un salvano corteggia pesantemente una ragazza che non lo vuole. Questa si rifugia nel fienile e quello insiste. Allora lei gli suggerisce di infilar la mano nella toppa per aprire la porta, ma poi gliela taglia col ferro per la paglia. Lui fugge urlando “Ho avuto!” e ai suoi compagni, che gli chiedono cosa abbia avuto, risponde “Il mio stesso danno!”, col che quelli se ne vanno.

 

E’ un motivo di origine fassana, ma narrato a parti invertite e dimenticando un dettaglio fondamentale.
In origine, infatti, la storia (De Rossi) trattava di un falciatore insidiato da una perfida bregostana, (in questa versione, la punizione per il povero salvano innamorato pare in effetti alquanto eccessiva), e manca l’astuzia dell’uomo che dichiara di chiamarsi “Me stesso”, fornendo una strutturazione molto più logica all’episodio dei compagni.
Torna comunque il motivo del salvano (o della bregostena) che può essere giocato con l’astuzia. Il trucco utilizzato è uno dei due che ricorrono quasi invariabilmente (l’altro è quello delle mani nel ceppo che abbiamo visto nella storia della Donaza e il Donazin), e trova la sua radice letteraria nella beffa di Ulisse a Polifemo.

 

 

L’ebreo errante

Un uomo vecchissimo passa da Savinèr; invitato a fermarsi a riposare, risponde di non poter trovare pace fino al giorno del giudizio, per aver rifiutato un attimo di riposo a Gesù sul Calvario. Ricompensa l’offerta con una profezia.

 

La leggenda cristiana dell’ebreo errante, maledetto da Cristo durante l’ascesa al Calvario e condannato ad aspettare il suo ritorno senza mai trovar pace, si ritrova già in alcuni scritti del ‘200 ed è comune a molte città e paesi italiani (e non solo), in particolare della zona alpina. In genere, chi aiuta l’eterno viandante è ricompensato con una profezia, che consente di stornare una sciagura; chi non lo fa, è colpito da una maledizione. Nel nostro caso, abbiamo una curiosa commistione con un tema di provenienza diversa.
L’ebreo infatti racconta di essere già stato due volte nella valle e di aver trovato, la prima volta una grande distesa d’acqua, la seconda monti e selve senza traccia di frequentazione umana. Per inciso, sconvolgimenti geologici di questo genere risultano palesemente anacronistici nel nostro caso, dal momento che il viandante non può essersi messo in strada che dopo la morte di Cristo. Tuttavia il motivo è presente in altre leggende ladine, ed è legato al demone smascherato con l’enigma delle uova; cfr. p.es. “Sete volte la montagna l’ei stada pra, sete volte l’ei stada montagna…” in G. Šebesta, 1973: Fiaba-leggenda dell’alta valle del Fersina, S.Michele all’Adige, citato da S. de Rachewiltz in “Gli «Infantes suppositi» e l’enigma dei gusci”, Mondo Ladino IX(1985) n.3-4 pp.85-99).
In ogni modo l’ebreo errante aggiunge anche qui la sua profezia, ossia che l’alta valle tornerà un giorno ad essere invasa dall’acqua. A meno che non si voglia alludere al lago di Alleghe (?), è un raro caso di profezia non fatta “a posteriori”, in quanto descrive un evento che ancora non si è verificato.

 

 

Eivana pié di capra

Un uomo si porta a casa (con un espediente magico) un’anguana (Eivana) coi piedi caprini e le chiede di sposarlo. Lei accetta, purchè l’uomo non la chiami mai “Eivana piè di capra” e non le dia mai uno schiaffo col dorso della mano. Vivono felici e lei si dimostra un’ottima moglie e madre. Un giorno, tornando a casa, l'uomo racconta di aver sentito una voce nei boschi che diceva “Torna, Taratina, che Taraton è morto!”. La moglie sbianca in volto e gli annuncia che deve andarsene di casa. Così avviene; lei torna in incognito ad accudire i bambini, ma quando lui tenta di sorprenderla, svanisce per sempre.

 

E’ una variante della ben nota storia dell’anguana che sposa un uomo. Si ha una commistione di motivi, entrambi già conosciuti, in quanto il patto nuziale viene stipulato, ma non violato; l’anguana deve abbandonare la famiglia non per questa ragione, ma obbedendo ad un misterioso “richiamo della foresta” (che ritorna anch’esso tanto in Alton quanto in De Rossi).
Anche il ritorno in incognito per accudire i bambini rientra nella tradizione ladina più classica; come pure i “consigli” di saggezza popolare che l’anguana dà al marito prima di lasciarlo.
Da segnalare invece l’espediente che viene consigliato all’uomo da una vecchia per portarsi a casa l’anguana: le sue vacche non riuscivano più a far avanzare il carro, perché vi era salita sopra l’anguana (invisibile). Dando a ciascuna una fava del colore della vacca e recitando una semplice formula, il carro prosegue la sua strada e, giunti a casa, l’anguana è diventata visibile. Una variante del motivo del carro è presente anche nella leggenda raccolta da Foches (2007) a Bedollo (zona di Pinè); il potere magico attribuito alle fave è riferito anche da De Rossi.

 

 

Il salvan dal luoster

Un salvano si presenta ad un casolare sperduto in una notte d’inverno, armato di un pattino da slitta. Il padrone lo rifocilla ma non intende ospitarlo per la notte. Il salvano dichiara di non volersene andare. Allora l’uomo acconsente, ma lo manda a far acqua con un cesto di vimini ed un paiolo bucato; poi barrica la porta. Il salvano va su tutte le furie, ma è costretto ad andarsene. La primavera successiva viene trovato morto, sepolto da una valanga.

 

Il racconto in sé non si discosta molto da numerose altre leggende sul salvan: uomo selvatico e coperto di peli, che vive nelle grotte dei boschi e delle più alte montagne; di indole non malvagia ma irascibile e pronto ad utilizzare la sua grande forza se contrariato o preso in giro, tuttavia spesso assai ingenuo e dunque facile da turlupinare (esempi in De Rossi, Alton, Wolff, Perco, Foches, Poppi ecc.). Il modo in cui questo salvano viene imbrogliato, pur discostandosi dai classici ladini, è anch’esso tradizionale.

Vi è tuttavia un dettaglio molto singolare: il luoster, o pattino da slitta, che questo salvano si porta dietro. Il motivo non ritorna in alcuna altra leggenda, ed è importante perché è del tutto incongruo (un oggetto della “cultura” in mano ad un selvatico!) e non ha la minima funzione nel racconto: si afferma che il salvano se lo portava dietro, e basta. Sembra piuttosto difficile arrampicarsi sugli specchi per trovargli un qualunque significato simbolico, o supporre che un cantastorie un bel giorno si sia “inventato” di sana pianta questo salvano col pattino da slitta; non resta che supporre che, in un dato momento storico, un abitante dei boschi (morto sotto una slavina?) sia stato effettivamente visto con un “luoster” in mano, vuoi che fosse un vero pattino di cui si era impossessato, vuoi che fosse un randello ricavato da un ramo a punta ricurva, che ad un pattino poteva rassomigliare.

 

 

L’uccellino dell’Infron

Una madre incarica i due figli di portarle l’uccellino dell’Infron. Il minore riesce a prenderlo, ma il maggiore lo ammazza e porta lui l’uccello alla madre. Un pastore si fa uno zufolo con una canna cresciuta sopra la tomba del fratello ucciso, ma questa canta con la voce del morto e accusa il fratello dell’omicidio.

 

Breve racconto dalla tipica struttura fiabesca. In effetti, si tratta della versione semplificata di una favola italiana, di origine toscana, ma diffusa in tutto lo stivale e non solo. Italo Calvino (Fiabe Italiane, n.180) la riporta col nome “La penna di hu”, annotando che storie dagli analoghi motivi si trovano anche nei fratelli Grimm. Anche l’accenno al “bosco di Siena”, presente nella variante ladina, rimanda ad un ambiente toscano, per quanto non meglio dettagliato.
Nella versione riportata da Calvino, i fratelli sono tre e non due, secondo la migliore tradizione, e il misterioso “uccellino dell’Infron”, desiderato dalla madre ladina per motivi non meno misteriosi, è un pavone (“Hu” echeggia il verso del suddetto animale), di cui si cerca una penna per guarire un re dalla cecità (gli “occhi” sulla coda del pavone hanno un legame di magia simpatica con gli occhi-organo della vista).
La parte principale della storia resta peraltro assolutamente identica: la canna cresciuta sopra la tomba del fratello ucciso canta con la sua voce e denuncia il tradimento e l’assassinio. Calvino ci informa che nella versione originale lo zufolo non era costituito da una canna, bensì da un osso del morto stesso, e che esistono invece versioni ancor più edulcorate in cui il fratello, alla fine, risuscita.

 

 

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