Mappa del sito

Settembre 2011

Visita all’archivio “Brenner” di Innsbruck

 

Sono stato all’Archivio “Brenner” (Forschung Institut Brenner-Archiv dell’università di Innsbruck), dove è custodito il materiale lasciato da K.F.Wolff. Innanzi tutto non posso che ringraziare il personale dell’archivio per la disponibilità e la cortesia. L’Austria era un paese ordinato (come ben sanno a Trieste, dove hanno avuto modo di confrontarla con l’Italia), e lo è ancora. L’archivio (di conseguenza?) è molto curato e di facile consultazione; il lascito Wolff è organizzato in 47 scatoloni, ciascuno dei quali contiene documenti dello stesso tipo. Un buon catalogo si può trovare sul web. Molte scatole sono dedicate ai manoscritti originali delle sue opere, altre alla corrispondenza, altre ancora ai suoi appunti e molte, infine, a libri, ritagli di giornali e documentazione scientifica varia.

 

Mi sono mosso, naturalmente, sulle tracce della professoressa Kindl, che ebbe modo di compulsare a fondo l’archivio in tempi passati. Nutrivo l’ingenua speranza di trovare qualche dettaglio che potesse esserle sfuggito. Ma non è andata così.
Anche Wolff, da buon austriaco, era un uomo ordinato; sfortunatamente era anche poeta e, soprattutto, il suo archivio era destinato alla sua consultazione e non a quella dei posteri. Pertanto ho incontrato, diciamo, alcune serie difficoltà.
La principale è che il dabben uomo scriveva i suoi appunti nell’alfabeto corsivo tedesco: già faccio fatica a capire il tedesco stampato, ma quello corsivo, che è tutto diverso dai caratteri latini (cfr. un esempio qui), mi ha messo completamente in crisi. Se avesse usato il cirillico (stampato), avrei certamente capito di più. Pertanto la mia ricerca, al di là delle poche parti battute a macchina o scritte in lingue (e caratteri) diversi dal tedesco, si è ridotta alla ricerca dei nomi di persona e da lì al faticoso tentativo di ricostruire cosa diavolo avesse voluto dire in merito.

Il mio primo obbiettivo è stata la corrispondenza: mi interessavano soprattutto i rapporti di Wolff con Staudacher, il parroco cui presumibilmente dobbiamo la parte etnologicamente più interessante dei Fanes, Croda Rossa compresa. Purtroppo non ho trovato proprio nulla di interessante: poche righe molto complimentose ed auguri di buon compleanno. I dati dovevano dunque esserseli scambiati tutti nel corso dei loro molteplici abboccamenti, e in forma scritta non sembra ne sia rimasto nulla.
Ho controllato anche l’epistolario con Scarsini, l’etnologo dilettante friulano da cui Wolff ricevette una raccolta di leggende, e con Innerebner, l’ingegnere bolzanino che trovò dei reperti preistorici (?) sull’Alpe di Fanes. Mentre per quest’ultimo la situazione è simile a quella descritta per Staudacher, qualcosina su Scarsini ho trovato; anche il testo di alcune leggende, ma non purtroppo la raccolta completa, che avrebbe potuto essere abbastanza interessante.

Sono passato poi all’esame dei quaderni di appunti di Wolff. Egli si dimostra austriaco nell’aver compilato una quantità inverosimile di quadernetti, tutti dello stesso identico formato, in un’arco di tempo che va dal 1903 fino alla morte nel 1966. Si dimostra invece poeta nell’aver mescolato gli argomenti: appunti di campagna con citazioni da libri, o annotazioni scientifiche. Solo lui, che li aveva scritti, poteva (forse) orizzontarcisi senza troppa fatica. Ma, come già detto, i suoi appunti non erano affatto destinati alla consultazione di altri.
Comunque sia, i primi e più importanti quaderni di campagna, ossia gli appunti presi all’inizio del XX secolo nel corso dei suoi viaggi nelle Dolomiti e circondario, parlando con la gente ed annotandone le risposte e le notizie fornite, si dimostrano largamente incompleti. Abbiamo del resto anche la sua stessa testimonianza: molti quaderni se li era portati sul campo durante la prima guerra mondiale, e alcuni non tornarono a casa mai più. Fermo restando che la mia incomprensione del tedesco corsivo POTREBBE avermi fatto mancare dei dati importanti (ma non credo di essermi potuto perdere molto), sembra proprio che molte delle leggende più note ed importanti (fra cui TUTTO ciò che riguarda il Regno dei Fanes), o non siano mai transitate da quegli appunti, o siano disgraziatamente andate perdute.
In questo posso dunque certificare che la professoressa Kindl non trascurò nulla: tutte le note e noterelle riportate da Wolff nei suoi quaderni a proposito delle leggende ladine, compaiono debitamente anche nei due volumi della Kritische Lektüre.

Nei volumetti di Wolff compaiono invece moltissimi appunti che riguardano toponimi o altri termini in ladino, slegati da qualsiasi riferimento a racconti specifici, che Wolff annotava sempre con la massima cura, e che oggi ritroviamo sparpagliati qua e là nelle sue leggende (Fanes compresi). Questo mi lascia con la sensazione che Wolff non soltanto abbia – come del resto da lui stesso apertamente dichiarato - potuto effettivamente recuperare solo dei frammenti sparsi delle antiche tradizioni, ma peggio che si sia poi premurato di ricostruirle utilizzando quei termini ladini dove gli faceva più comodo, per conferire, diciamo, una fittizia patina di genuinità a quello che andava scrivendo.
La sola – sgradevole - conclusione accettabile è dunque che NESSUN particolare dei suoi racconti possa essere considerato come proveniente dalla tradizione, a meno che la sua autenticità non venga comprovata per altra via. E questo include, almeno per ora, i dettagli dell’intera leggenda dei Fanes. Fanno forse eccezione quei passaggi “fuori dal seminato” (come per esempio la scalata di Ey-de-Net al monte Amariana, o la storia degli amori tra la Tsicuta ed il re dei Fanes) che suonano troppo sorprendenti ed avulsi dal contesto della sequenza narrativa per poter essere stati inseriti a bella posta ex novo nel racconto, da un narratore poi particolarmente attento a salvaguardare ciò che definiva lo “spirito” della tradizione.
Ma, per toccare un punto particolarmente critico e significativo, circa la struttura sociale dei Fanes, il loro rapporto con le marmotte, ecc., in realtà oggi non c’è nulla che ci consenta di distinguere tra cosa possa esserci stato trasmesso oralmente fin dall’antichità, e cosa sia stato invece inserito da Wolff per far quadrare i conti con le sue personali concezioni sul totemismo ed il matriarcato.
Tutti i tentativi di interpretazione della leggenda – tanto quella della professoressa Kindl, quanto la mia – appaiono dunque fondati su elementi estremamente labili ed incerti. Per quanto mi riguarda, sarà necessaria una profonda revisione, a partire da questo sito.